Anche se lo spunto di partenza era personale e, per così dire, “minimalista”, le considerazioni che abbiamo fin qui sviluppato, e che si sono andate allargando come cerchi nell’acqua, mi sembrano del tutto fondate. A conferma, vorrei riportare un altro paio di “chicche”, sempre centrate sui rapporti Liguria-Sbarbàro-cantautori (specie Tenco).
1) Ecco la prima: un breve ma pregnante articolo di una certa
Fausta Samaritani (ma guardate un po’ quanti vecchi fans sconosciuti che ci sono giro!), tratto da
www.repubblicaletterarie.net:
«(…) Camillo Sbarbaro raccoglieva frantumi di idee che sezionava ed esprimeva in un linguaggio spoglio; avvertiva un fluire di apparenze, estraniate e staccate da sé; collezionava paesaggi scabri, astratti, inabitabili, fuori del tempo, confortato da un velo di ironia. Le sue intuizioni maturavano lentamente, covate in silenzio, nella sua solitudine di
adolescente invecchiato senza diventare adulto [diamine, ma pochi giorni fa, con Balans, si stava parlando proprio di questo, citando un famoso brano di Jacques Brel! (N. d. R.)]. Rifiniva con cura le frasi e la punteggiatura; in uno sforzo di sintesi estrema riduceva la sintassi, come se lo scopo ultimo fosse una definizione esatta, quasi scientifica, e non una pagina letteraria.
La breve consolazione del verso di Camillo Sbarbaro incantò Eugenio Montale che gli dedicò "Ossi di seppia". La frantumazione, la polverizzazione delle cose, l’occhio dello scrittore come specchio di schegge deformate, con un salto generazionale, approdò dentro le pagine di Italo Calvino.
L’arco della Liguria, che ripara dai venti del Nord, accoglie le brezze che arrivano dai quadranti meridionali. Sembra che questa circolazione di aria metta le ali anche alla letteratura: Camillo Sbarbaro, Eugenio Montale, Italo Calvino, Giorgio Caproni, un ligure per elezione. Identica leggerezza si ritrova nella musica ever green: Tenco, Paoli, De André. Ha scritto Caproni: “I miei versi sono nati in simbiosi con il vento”.»
2) Come seconda “chicca”, invece, vorrei riportare per intero una lunga e complessa poesia dello stesso
Sbarbàro, risalente al 1922, in cui si delinea per intero la Liguria come “paesaggio interiore”, “paesaggio dell’anima”, da cui tutti i nomi che abbiamo fin qui citato hanno successivamente preso qualcosa, da Montale a Tenco. Per di più, tale omaggio alla Liguria, “scarsa lingua di terra che orla il mare”, "ara di pietra tra cielo e mare", sembra ancor più doveroso in questo momento, dopo i recenti disastri alluvionali:
Scarsa lingua di terra che orla il mare
Scarsa lingua di terra che orla il mare,
chiude la schiena arida dei monti;
scavata da improvvisi fiumi; morsa
dal sale come anello d’ancoraggio;
percossa dalla fersa; combattuta
dai venti che ti recano dal largo
l’alghe e le procellarie
– ara di pietra sei, tra cielo e mare
levata, dove brucia la canicola
aromi di selvagge erbe.
Liguria,
l’immagine di te sempre nel cuore,
mia terra, porterò, come chi parte
il rozzo scapolare che gli appese
lagrimando la madre.
Ovunque fui
nelle contrade grasse dove l’erba
simula il mare; nelle dolci terre
dove si sfa di tenerezza il cielo
su gli attoniti occhi dei canali
e van femmine molli bilanciando
secchi d’oro sull’omero – dovunque,
mi trapassò di gioia il tuo pensato
aspetto.
Quanto ti camminai ragazzo! Ad ogni
svolto che mi scopriva nuova terra,
in me balzava il cuore di Caboto
il dì che dal malcerto legno scorse
sul mare pieno di meraviglioso
nascere il Capo.
Bocconi mi buttai sui tuoi fonti,
con l’anima e i ginocchi proni, a bere.
Comunicai di te con la farina
della spiga che ti inazzurra i colli,
dimenata e stampata sulla madia,
condita dall’olivo lento, fatta
sapida dal basilico che cresce
nella tegghia e profuma le tue case.
Nei porti delle tue città cercai,
nei fungai delle tue case, l’amore,
nelle fessure dei tuoi vichi.
Bevvi
alla frasca ove sosta il carrettiere,
nella cantina mucida, dal gotto
massiccio, nel cristallo
tolto dalla credenza, il tuo vin aspro
– per mangiare di te, bere di te,
mescolare alla tua vita la mia
caduca.
Marchio d’amore nella carne, varia
come il tuo cielo ebbi da te l’anima,
Liguria, che hai d’inverno
cieli teneri come a primavera.
Brilla tra i fili della pioggia il sole,
bella che ridi
e d’improvviso in lagrime ti sciogli.
Da pause di tepido ingannate,
s’aprono violette frettolose
sulle prode che non profumeranno.
Le petraie ventose dei tuoi monti,
l’ossame dei tuoi greti;
il tuo mare se vi trascina il sole
lo strascico che abbaglia o vi saltella
una manciata fredda di zecchini
le notti che si chiamano le barche;
i tuoi docili clivi, tocchi d’ombra
dall’oliveto pallido, canizie
benedicente a questa atroce terra:
– aspri o soavi, effimeri od eterni,
sei tu, terra, e il tuo mare, i soli volti
che s’affacciano al mio cuore deserto.
Io pagano al tuo nume sacrerei,
Liguria, se campassi della rete,
rosse triglie nell’alga boccheggianti;
o la spalliera di limoni al sole,
avessi l’orto; il testo di garofani,
non altro avessi:
i beni che tu doni ti offrirei.
L’ultimo remo, vecchio marinaio
t’appenderei.
Ché non giovano, a dir di te, parole:
il grido del gabbiano nella schiuma
la collera del mare sugli scogli
è il solo canto che s’accorda a te.
Fossi al tuo sole zolla che germoglia
il filuzzo dell’erba. Fossi pino
abbrancato al tuo tufo, cui nel crine
passa la mano ruvida aquilone.
Grappolo mi cocessi sui tuoi sassi.
Anche in tal caso, che dire di questa Liguria sospesa tra cielo e mare e di quelle immagini di Caboto che parte all’esplorazione del mondo? Anche a voi non torna in mente “La nave ha già lasciato il porto / e dalla riva sembra un punto lontano…” di “Un giorno dopo l’altro”?